La domanda è semplice ma sufficientemente bizzarra per decidere di idearci una mostra attorno: è possibile che Trieste abbia il genius loci della transizione sessuale? Sottoposta a chiavi di lettura svariate, suggellata da stereotipi ormai quasi stanchi e da scontate interpretazioni, Trieste si presta oggi ad una rappresentazione inedita ipotizzandosi luogo ideale per la conversione sessuale.
È una riflessione che si traduce in un percorso artistico eterogeneo e divertente dove gli approcci passano dal reportage fotografico al disegno, dall’umorismo leggero alla precisione scientifica.
Precisione ed esattezza scelte come esplicita introduzione alla mostra con l’opera “Conversione androginoide”: quasi a voler sciogliere sin dal principio ogni dubbio sull’interpretazione del concetto di transizione, Laura Zicari, rara e intrigante figura d’artista e insieme di disegnatrice anatomica presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Trieste, presenta la perfetta riproduzione di un’operazione chirurgica di cambio di sesso. Il dettaglio, crudo, imbarazzante, palesato dalla nettezza del disegno, è decorato e addobbato da oggetti, come bisturi, catetere e “guanto insanguinato con brillante” che rimandano alla sala chirurgica gettando un velo di stravagante sarcasmo. L’opera non è solo oggettiva realtà artistica ma, soprattutto nel contesto della nostra ipotesi, si fa testimonianza dell’importante attività della Clinica Urologica per la riassegnazione chirurgica del sesso presente a Trieste. È proprio qui, infatti, che molti decidono di concludere il lungo processo di transizione attraverso l’irrevocabile cambiamento. Noti personaggi dello spettacolo o comuni mortali transessuali consegnano a questa discreta provincia la scelta, probabilmente, più importante della loro vita, lasciandosi guidare tra le tortuose strade del ricongiungimento identitario dalla sensibilità e la preparazione delle strutture sanitarie che certamente devono molto alle illuminate figure di Weiss e Basaglia.
È sicuramente, dunque, anche il background sociale e culturale legato alla grande storia della psicanalisi e della psichiatria che fa di Trieste un luogo capace di ispirare alla libertà più intima e profonda, come per Jan Morris, scrittrice/viaggiatrice, che in questa città trova la forza e l’indipendenza mentale di accettare pienamente la sua negata femminilità fino a decidere di diventare completamente donna. E da questo personaggio prende spunto anche il concept della mostra che intende raccontare in modi diversi delle mutevolezze sessuali: Emanuela Marassi, ad esempio, si serve di un animale magico e suggestivo, il rospo, per parlarci di sessualità e androginia. Questi anfibi, simbolo di metamorfosi e trasformazione, sono proposti nell’inusuale ma irresistibile colore rosa, che accentua i classici binomi bellezza/bruttezza, attrazione/repulsione di cui il povero animale sarà eterno schiavo. Il rosa è una costante irrinunciabile per l’artista, che ci ricorda: “è il colore imposto alle bambine, il colore della panna nella torta, e il colore delle mucose”, è per lei il colore di cui ci si vergogna, che sta in quello spazio “dove maschile e femminile si confondono e ognuno è “essere”. Diversa l’espressione di Renate Bertlmann, celebre artista viennese da sempre impegnata ad esplorare le tematiche della sessualità, che affida invece alla leggerezza della matita e dell’acquerello la costruzione di fantasiosi e molto spiritosi agglomerati sessuali intenti a consumare improbabili accoppiamenti ermafroditi. Organi sessuali in divenire, ambigue e indefinibili forme che si concedono il lusso di evocare piuttosto che descrivere, erotiche ricerche di identità… che ritroviamo in chiave fumettistica anche nelle pungenti figurine di Maddalena Fragnito, la quale intende decifrare e interpretare l’universo trans attraverso la schiettezza della parola e del dialogo: “I’ve started my transistion! – And where are you going?”.
Una selezione di immagini tratte dal reportage fotografico del concorso “Miss Trans Italia” di Fabrizio Giraldi sottolinea invece l’aspetto più intimo e meno esposto delle protagoniste, ritratte di spalle durante i momenti di preparazione prima della sfilata. Mescolanza di caratteri umani e di sesso che disorientano chi guarda, indeciso se assegnare loro attributi di femminilità o rinunciarvi.
Illuminata e brillante, infine, l’opera di Ane Lan, artista norvegese, che propone se stesso travestito da sei donne di etnie diverse. Il tema trattato è, in verità, quello dell’immigrazione e del multiculturalismo post coloniale che riflette sull’immagine che una cultura propone al di fuori del proprio contesto identitario, e insieme la percezione stereotipata di questa: figure in abiti tipici, inconfondibili, che, come le icone sacre, portano addosso dei simboli che le rendono riconoscibili. Simboli però sbagliati, come il broccolo, sconosciuto in Asia ma consegnato alla donna indiana in quanto, in Norvegia, abitualmente dedita al commercio delle verdure. L’artista viola dunque le verità identitarie e culturali di queste donne attraverso rappresentazioni errate ma anche, e soprattutto, usando il suo corpo di uomo, bianco, eterosessuale, per profanare così anche l’identità più intima, quella sessuale appunto.
“Siamo in un periodo di transizione” riunisce quindi registri e letture molto diversi, orientamenti e approcci artistici anche opposti, che si confrontano sulla transizione, sull’identità di genere, sulla varietà e variabilità dei sessi sullo sfondo di una città, Trieste, pronta, più di quello che si possa pensare, a calarsi nei panni di un genius loci trans.
Caterina Skerl